Il sabato a mezzogiorno Franco, il nostro mitologico preside di facoltà, ordinava a noi meteci che andavamo a Siena a insegnare e a un po’ di laureati che bighellonavano nell’atrio che si andasse tutti a mangiare insieme. All’Osteria di via de’ Rossi, all’Enoteca dei Terzi … e io scoprivo vini nuovi e cibi difficili da trovare a Milano.
Allora al dottorato non accedevano tanto i neolaureati, quanto soprattutto giovani adulti che avevano già qualche anno di esperienza lavorativa. Una sera fui condotto a cena da una allieva della classe di dottorato alla quale impartivo alcune lezioni. Lei, ragazza brillante, che infatti ora ha un ruolo di rilievo in una importante istituzione internazionale, aveva colto la mia curiosità per la cucina locale e il mio amore per i vini toscani, quindi mi propose di andare fuori città e mi guidò a Castellina in Chianti, in mezzo alle vigne e alle colline, in una zona che allora per me era esotica, un borgo antico e silenzioso sospeso nel tempo delle favole, in una locanda che credo non esista più e tra le tante cose buone e invitanti della carta mi fece scoprire il tonno del Chianti. Con un nome così, chi non accetterebbe di assaggiare?
Conoscevo già il tonno di coniglio, una ricetta della tradizione piemontese, ossia il coniglio sfilettato e conservato sott’olio, con aromi vari, che nacque quasi certamente dalla necessità dei contadini di conservare la carne di coniglio quando non esisteva la refrigerazione. Eccellente prodotto, oggi si trova anche a Milano (p.es. al mercato di Piazza Wagner). Cosa sia il tonno di coniglio è piuttosto intuitivo e – in ogni caso – vi confermo che sa di coniglio. Sul tonno del Chianti, assaggiandolo, avevo qualche incertezza. E ovviamente il gioco prevedeva che io dovessi indovinare cosa fosse davvero e, altrettanto ovviamente, non l’imbroccai, facendo ridere la commensale, il ristoratore e qualche avventore più avveduto. Che poi, se io fossi così sveglio come vado raccontando di essere, avrei dovuto capire al volo l’ingrediente dissimulato: cosa c’è di più toscano del maiale? Mi vendico da decenni, procurandomelo e facendo lo stesso giuoco con i miei ospiti ignari. Uno solo, evidentemente più sveglio di me, ha capito al volo.
Qui raccontiamo un piatto antico, che era andato quasi perduto. Per fortuna l’ultimo norcino (s. m. (f. –a) Per antonomasia, chi fa il mestiere di castrare i maiali, di macellarli, e di lavorarne e venderne le carni: chiamare il n.; fare il norcino.) depositario del sapere lo trasmise a Dario Cecchini, uno dei due grandi macellai del Chiantishire, un personaggio che gli americani definirebbero larger than life, e lui, diciamo un trenta e rotti anni fa, iniziò a produrlo e venderlo ai ristoranti e poi al pubblico, nella sua famosa bottega, cioè poco prima che la dottoranda me lo facesse scoprire. Il Cecchini divenne un personaggio noto in tutta Italia quando, all’epoca della mucca pazza, compose l’”Ode alla bistecca”

(https://corrierefiorentino.corriere.it/cronache/articoli/2008/08_Agosto/27/cecchini_ode_bistecca_poesia.shtml), ma non è certo questo il suo atto più bizzarro.
Di per sé, non c’è nulla di magico nella ricetta, si tratta solo di assemblare maiale, vino bianco, foglie di alloro, sale e olio: qui il segreto non sta nell’ingrediente segreto di Kung Fu Panda, bensì nel processo di lavorazione. Purtroppo il pur gentilissimo Cecchini, non ha mai ritenuto in tante visite alla sua bottega di Panzano di voler condividere il segreto del processo e le sue indicazioni, peraltro disponibili online in una intervista, temo non siano esaustive. Sono un po’ come le ricette di mia mamma: “Prendi questo e quello e poi lo cuoci”. “Sì mamma, ma a che temperatura e per quanto?” “Ma dai, lo vedi!”. Ripensandoci, anche le ricette di Escoffier sono senza tempi e quantità.
Anticamente il tonno del Chianti veniva prodotto per utilizzare gli “scarti”, ovvero i lattonzoli che ai primi caldi estivi mostravano inappetenza o altri problemi; la logica era un po’ quella per cui il porceddu sardo originariamente era cucinato impiegando i maialini che avrebbero avuto difficoltà a crescere e sarebbero morti presto comunque. L’agricoltura era un’economia povera, che utilizzava tutto in modo efficiente, riciclava il più possibile e buttava via molto poco, una vera economia circolare.
Il tonno del Chianti è stato raccontato come un divertissement della cucina toscana, come un gioco tutto giocato su qualcosa che sembra qualcosa d’altro per consistenza e, nello specifico, per leggerezza. In effetti allegro e divertente lo è e, senza scomodare Luciano Anceschi, sembra quasi un frutto tardivo del manierismo, un momento di allegria, illusione e sfida alle regole (pensate alla Sala dei Giganti nel Palazzo Te a Mantova), uno stile – mi permetterei di ricordare – praticato anche nella Toscana che automaticamente ci pensiamo come culla del rigore formale rinascimentale. Non userei la scena finale di The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover (Peter Greenaway, 1989) come paragone di cibo che in realtà è diverso da ciò che sembra, ma evocherei piuttosto la cucina “architettonica” del Sei-Settecento.
D’estate, aperte le fibre come se fosse tonno, con capperi, pomodorini e olio (ci metterei anche il basilico, ma io mangerei anche basilico e panna montata) è leggero e saporito. Dice Cecchini che si può usare anche sulla pasta, ma senza cuocerlo, mi raccomando!, o impiegarlo per preparare la salsa tonnata. Io non ho ancora provato, ma non ci vedrei nulla di male.
Oggi lo si trova con relativa facilità sia nei ristoranti, diciamo dal Chianti alla Val d’Orcia, di vari produttori. Ormai qualcuno se lo prepara anche in casa sul presupposto perfettamente condivisibile che forse l’originale rimane inarrivabile, ma la soddisfazione di fare con le proprie mani qualcosa che piace, beh … non ha prezzo.
Comunque, volendo rispondere alla domanda d’inizio, una cosa più toscana del maiale ci sarebbe: il cinghiale. Ne parleremo.
Photo Credit foto del titolo: TasteAtlas
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