di Alessio Di Paola
Le pagine di Wine and Affine ospitano Dimitri Grassi, chef di Ariano Irpino e fondatore di Capetoste, un progetto che, partito come un home restaurant, si è allargato fin quasi a diventare una vera e propria sfida a un sistema che sembra promuovere lo sradicamento dalla terra d’origine, per essere inglobati e omologati all’internon di una massa informe priva di reale identità. Irpinia, terra bella quanto dura, dalle verdi estati, dagli inverni lunghi e dal silenzio assordante. È qui che nasce Capetoste, teste dure, che non mollano, che non si fanno condizionare e che vanno avanti per la propria strada sempre e comunque.
D. Ciao Dimitri e benvenuto su Wine and Affine: partiamo dal principio, come è nato il progetto Capetoste? Ricordi quando hai avuto la prima intuizione? Hai fatto fatica a trovare collaboratori?
Il progetto nasce ormai quasi dieci anni fa, all’inizio come semplice profilo Instagram all’interno del quale condividevo i miei esperimenti gastronomici. Poi sono iniziati i primi eventi itineranti ed alcune collaborazioni, come quella con il ristorante Maeba di Ariano Irpino e lo chef Marco Caputi. Nel 2020, con i primi lockdown, ho cominciato a organizzare delle cene “clandestine” in quella che oggi si chiama “Fucina Capetoste”. Da allora propongo appuntamenti mensili, circa un paio al mese, su prenotazione, per massimo otto persone.

Tengo a precisare che il mio non è un ristorante e non mi considero uno chef, neppure un cuoco: sono un semplice appassionato di gastronomia a cui piace la convivialità.
Per questo motivo non parlerei di collaboratori, ma solo di amici, Luigi e Lorenzo, con cui condivido le medesime passioni e che mi accompagnano in queste sperimentazioni culinarie.



D. La tua carriera parte (e prosegue in parallelo) come informatico. Immagino che stare seduto per ore attaccato a un computer abbia influito sulla scelta di partire con il progetto Capetoste. Nel tuo caso, l’arte culinaria rappresenta una sorta di fuga dalla precisione, a tratti alienante, delle macchine?
Direi proprio di sì, con gli anni ho sentito il bisogno di uscire dalla dimensione del lavoro digitale in remoto e la cucina mi ha dato l’opportunità di entrare in contatto con tantissime persone e soprattutto di sporcarmi letteralmente le mani.


D. La tua fucina negli anni ha rappresentato un crocevia per personaggi unici ed inimitabili che si sono trovati (e ritrovati) in un contesto di apparente casualità. Oltre ad appassionati di gastronomia si sono seduti alla tua tavola artisti di ogni sorta, avventurieri del gusto e ricercatori di esperienze non comuni. Ricordo alcune cene sfociate in scenari surreali, alla Buñuel, dove il cibo era solo un pretesto che accompagnava le storie, i racconti e i sogni dei partecipanti.
Quando ti sei reso conto che la fucina trasportava i tuoi ospiti in una dimensione quasi onirica? Quante e quali iniziative sono partite da quegli incontri fortuiti?
Come dicevo prima, la Fucina è stata ed è tuttora un’occasione di incontri con persone che nella maggior parte dei casi condividono con me la medesima passione per la buona cucina e la convivialità. Ho conosciuto tante persone con cui sono nate delle vere e proprie amicizie e anche delle collaborazioni, come lo chef Gerardo Urciuoli, Davide Lima di Troppofrizzante o ancora Manuele Altieri di Lengalonga. La Fucina si è rivelata un crocevia di persone curiose ed entusiaste del mondo della gastronomia che hanno reso speciale questa esperienza.
D. Le aree rurali italiane, il sud e quindi l’Irpinia, come ben sappiamo, soffrono da decenni del grave problema dello spopolamento. Ti riporto una frase tratta dal libro “Qui non si può restare”, edito da Coltura Edizioni di Federica Lauda, che tu conosci:
“Il vento d’Irpinia porta nuvole e nostalgia
a noi che siamo nati con la valigia in mano
perché ci hanno detto che qui non si può restare…”
Sono convinto che i progetti come il tuo rappresentino un invito a resistere, a restare e a sfruttare le potenzialità, in larga parte inespresse, di questi luoghi.
Che consiglio ti senti di dare ai più giovani che sentono, in cuor loro, di non rassegnarsi a una vita da migrante?
Non so se esperienze come Capetoste si possano considerare inviti a restare. Anche io anni fa decisi di tornare nel mio paese natale perché non trovavo nella grande città la mia dimensione ideale. Sicuramente un’esperienza come quella della “Fucina” mi ha aiutato a vivere meglio nella mia terra e a costruire delle connessioni di valore che rendono meno frustrante il fenomeno dello spopolamento. Non mi sento di dare dei consigli, non penso di averne titolo. Posso solo dire che se davvero si vuole restare nella propria terra oggi ci sono molte più opportunità anche grazie ai social e a Internet in generale: si ha la possibilità di promuovere il proprio progetto imprenditoriale su scala nazionale e internazionale, vedi l’esempio delle tante cantine locali che si stanno facendo conoscere nel mondo.

D. Collabori regolarmente con piccole realtà artigianali e culturali del territorio. Dato per assunto che sia importante fare rete tra realtà imprenditoriali in territori definiti economicamente depressi, è imperativo che anche la politica dia il suo contributo. Ritieni collaborative le istituzioni locali? Cosa può essere fatto per migliorare la situazione?
Personalmente non ho molta fiducia nelle istituzioni locali, cerco di tenermi alla larga dalla politica e dalla burocrazia. Credo nell’iniziativa dei singoli cittadini. Negli ultimi anni sono nati eventi interessanti che puntano a promuovere la cultura enogastronomica irpina, come “Enorme”, la fiera dei vini artigianali, o Irpinia Street Mood, il Fiano Festival. Insomma, ci sono iniziative che vanno in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare. Nel nostro piccolo cerchiamo di proporre appuntamenti con cui puntiamo a fare opera di divulgazione gastronomica, cercando di avvicinare al nostro territorio appassionati che arrivano un po’ da tutta la Campania.
D. Ho seguito sui social i tuoi viaggi in Asia e Sudamerica alla ricerca del “piatto perduto”. Potremmo definire il tuo approccio alla cucina come “glocal”, ovvero una fusione tra ricette esotiche e materie prime selezionate del tuo territorio. Descrivici, a tuo avviso, quali sono gli esperimenti più riusciti in questi termini?
Sicuramente il viaggio in Giappone è quello che mi ha segnato di più: la cucina nipponica mi ha letteralmente folgorato. Sarà per questo che i bao, il ramen e gli yakitori sono presenze costanti nel menù delle mie cene in Fucina e penso (spero) che siano anche i piatti più apprezzati.
D. Sei appassionato di cosiddetti vini naturali, dalle lunghe macerazioni sulle bucce, vini artigianali, talvolta estremi. Come li abbini ai tuoi piatti? Cerchi una sorta di fil rouge gustativo e istintivo tra calice e piatto o ti affidi alle regole di concordanza/contrapposizione della sommellerie? Facci un esempio in cui un tuo piatto e vino hanno chiuso il fatidico cerchio?
Più che agli abbinamenti, mi piace dare spazio e visibilità alle realtà di pregio del nostro territorio. L’abbinamento per me è un concetto molto soggettivo e non dovrebbe essere una regola. In linea generale cerco di scegliere un vino capace di stare bene al fianco di un certo piatto, ma amo anche le sperimentazioni non convenzionali e gli abbinamenti inaspettati. Diciamo che un Greco con una buona macerazione può reggere bene anche una corposa e corroborante tazza di ramen.
D. Cosa hai in serbo per il futuro? Hai in cantiere qualche progetto di cui ci puoi parlare?
Per il futuro ho in mente un periodo di pausa dalla gastronomia. Vorrei dedicarmi alla mia attività principale: mi occupo di sviluppo di applicativi per il web da oltre dieci anni, e nei prossimi mesi dovrò concentrarmi su un piano di promozione per il mercato italiano.
Per quel che riguarda la gastronomia, spero di poter organizzare nuove edizioni di Asado In Altura, un evento itinerante che si svolge in montagna e dove proponiamo cucina “di fuoco” sullo stile dell’asado argentino. Sì, come ti dicevo, il mio “vero” lavoro è l’informatica: ho sviluppato un applicativo per barbieri e centri estetici.
D. L’intervista è conclusa. Ti chiedo i tuoi contatti e un saluto per i lettori di Wine and Affine e mi congedo con questo stralcio di un’intervista a Fabrizio De André che credo in perfetto sintonia con l’intento di Capetoste:
“…a questo punto, credo che sia normale che ognuno di noi, prima ancora di sentirsi cittadino del mondo in questo senso, si senta invece napoletano, genovese, luganese, marchigiano e che, in qualche modo, cerchi di conservare la propria identità e le proprie radici di nascita per non sentirsi un burattino in mezzo ad un palcoscenico mostruoso.”
Grazie e a te ed ai lettori di Wine and Affine, speriamo di rivederci prossimamente in Fucina o altrove intorno a una buona tavola e a tanti nuovi racconti e progetti.
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